“Tu cosa hai perso?”, “A te cosa è successo?”
Sono queste le domande che, più frequentemente, vorremmo sentirci fare in questo momento, all’inizio di questo lungo viaggio dentro noi stessi, che la quarantena ci sta obbligando ad intraprendere. Quando ripetiamo la frase “restiamo a casa” attribuiamo un significato importante a queste parole, che racchiudono tutta una serie di significati. “Io resto a casa” vuol dire proteggiti, proteggi gli altri, aiuta la comunità. Rispettare il divieto di uscire implica il dovere morale ed etico di attenersi a quanto ci viene richiesto e comporta un sacrificio fisico e psicologico. In condizioni di normalità la nostra vita procede seguendo ritmi più o meno cadenzati, una routine scandita dai soliti impegni, dal nostro lavoro, dalla nostra famiglia, dalle nostre relazioni. La nostra quotidianità è solitamente densa, giriamo come trottole, percorrendo la città in lungo e in largo. Spesso ci dimentichiamo quasi di respirare, per poi tornare a casa la sera, nel nostro nido, nella nostra base sicura. Tutto quello che leggiamo o vediamo sui giornali e sui social, grazie alla tecnologia, spesso appare lontano, non tangibile. Possiamo comunque decidere di farlo rimanere lontano, come se non ci riguardasse.
Quando però, tutto d’un tratto, siamo obbligati a fermarci, immobili nelle nostre case, nelle città in cui siamo, soli o con le persone con le quali viviamo, dobbiamo fare i conti con il nostro vissuto emotivo che, una situazione di emergenza così straordinaria, comporta.
“A te cosa è successo?”
“Io sono di Milano, ma la mia famiglia è in Sicilia”, “Io domani devo andare al lavoro, le scuole sono chiuse e non posso lasciare i miei figli ai nonni, perché è pericoloso”, “Io sono preoccupata perché non posso andare a trovare mia madre che vive sola”, “E se succede qualcosa ai miei genitori? Io sono lontano, come faccio?”, “Ho dovuto chiudere la mia attività! Come pagherò il mutuo e le bollette?”, “Devo andare a lavorare, ma mi piacerebbe rimanere a casa con la mia famiglia”, “Devo laurearmi, sono 5 anni che immagino questo momento e ora cambia tutto. Dovrò farlo da remoto”.
Ognuno di noi ha la sensazione o la certezza di aver perso qualcosa. Troppo poco il tempo per metabolizzare psicologicamente tutto questo. Il coronavirus ha interrotto la continuità tra passato e presente. Il tempo si è fermato di colpo. La nostra routine spazzata via. Il qui ed ora è diventato, all’improvviso, pesante come un macigno. Questo comporta un marcato disagio psicologico per ognuno di noi. Preoccupazione, ansia, paura, a volte angoscia e terrore. Queste sono solo alcune delle emozioni e delle sensazioni che più frequentemente cerchiamo di contrastare e sublimare in tanti modi, almeno in questa fase iniziale.
Il trauma
Il Covid 19 è entrato nelle nostre vite come un evento che, senza dubbio, è possibile definire traumatico.
Così come viene definito, “il trauma si riferisce ad un evento stressante in grado di evocare significativi sintomi di malessere in quasi tutti gli individui”. Il vissuto di colui che lo vive è caratterizzato da impotenza. La vita psichica dell’individuo subisce una frattura tra il prima dell’evento e il dopo.
È possibile quindi attribuire un carattere traumatico al coronavirus dal momento che questo ha investito l’esistenza dell’individuo in maniera improvvisa, andando a colpire la sfera lavorativa, relazionale e sociale oltre che, inevitabilmente, la salute psichica e quella fisica delle persone. È avvenuto un passaggio repentino in direzione di una nuova vita, isolata, per certi versi alienante. La pandemia ha esasperato le debolezze dei più fragili e rischia di disorganizzare anche le personalità più equilibrate. Dover “rimanere fermi” comporta una riorganizzazione rispetto all’immagine che ognuno di noi ha del suo futuro.
Viene quindi chiesto di compiere uno sforzo, che deve essere letto in una prospettiva apparentemente opposta: “stiamo fermi, ma continuiamo a muoverci all’interno della nostra vita psichica“.
Rimaniamo a casa, ma riorganizziamo i nostri progetti, le nostre aspettative. Riadattiamoci. Per sopravvivere mentalmente al disagio che questa situazione di emergenza comporta, risulta necessario separarci, temporaneamente, dall’immagine che abbiamo sempre avuto della nostra routine, cercando anche di ricollocare l’attesa di eventi previsti e straordinari quali, per esempio, la laurea o il matrimonio. La rappresentazione che, giorno dopo giorno, per anni, costruiamo di noi stessi, viene attaccata dal Covid 19. Questo richiede un adattamento, richiede di modellare le rappresentazioni preesistenti.
Quello che è stato sollecitato maggiormente in queste prime fasi di questa emergenza planetaria, è il nostro Bambino interiore.
J. Bowlby, il padre della teoria dell’attaccamento, facendo riferimento al concetto di “assimilazione e accomodamento rappresentazionale” di Piaget, indicava la necessità di revisione e aggiornamento dei modelli in caso di cambiamenti drastici, in modo da generare un comportamento più adattivo. Questo processo di “accomodamento rappresentazionale” ci permette, nel momento in cui il nostro vissuto è costellato di preoccupazione, ansia, labilità emotiva, isolamento, un maggior adattamento alla situazione di emergenza contingente. Separandoci dalla consolidata rappresentazione di noi stessi, al fine di riorganizzarla e rimodellarla, possiamo allora rispondere alla domanda iniziale: “Tu cosa hai perso?”
Quello con cui ci stiamo confrontando in questo momento, tra le altre cose, ruota intorno al concetto di “perdita“.
La separazione dalle persone più care, dal lavoro, dalla libertà di scelta, dalla routine stessa, porta a vivere sentimenti simili alla perdita e, in alcuni casi, paragonabili a quelli provati in occasione di un lutto. Continuando a citare Bolwby e la sua teoria dell’attaccamento, ricordiamo che il bambino, nel costruire e mantenere un legame di attaccamento con la madre, tende ad usare quest’ultima come “base sicura” dalla quale allontanarsi per esplorare il mondo e alla quale fare ritorno, se stanco o spaventato. Bowlby osservò che, se il bambino non aveva questo nutrimento e percepiva lo spettro di una separazione dalla figura materna, attraversava tre fasi nel tentativo di reagire a questo pericolo percepito:
- protesta
- disperazione
- distacco
A proposito di questo viene in mente il primo fenomeno da tutti noi osservato: la fuga.
La fuga dalla città in cui ci si trova, in direzione della base sicura, la terra madre, la propria casa, la propria famiglia. Se viene attribuito un carattere di separazione al fenomeno in questione è possibile quindi riferirsi alle tre fasi della reazione emotiva dei bambini delineata da Bowlby, in risposta alla separazione fisica dalla madre. La prima fase, definita di protesta, è caratterizzata dalla difficoltà di accettare, sul piano emotivo, la separazione, in questo caso la situazione. L’atteggiamento centrale di questa fase è la speranza che in questo caso la situazione torni a essere normale. Se decliniamo la reazione al fenomeno in questione è possibile riferirsi alla difficoltà delle persone di rimanere nella propria abitazione con tutte le manifestazioni che stiamo osservando in questi giorni. Uscendo di casa, le persone, esprimono la loro protesta, la loro speranza. Al tempo stesso è però possibile rintracciare una negazione di quella che è la realtà.
La seconda fase di disperazione è invece caratterizzata da una perdita progressiva della speranza di veder tornare “la madre”, in questo caso, dunque, di veder tornare alla normalità la situazione straordinaria in cui stiamo vivendo. L’isolamento emotivo può essere manifestazione di questa fase. Il rischio è l’abbandono di movimenti attivi possibili, quali interazioni sociali virtuali o dal vivo e l’abbandono ad un vissuto di noia e solitudine.
La fase finale del distacco prevede, invece, una riorganizzazione. Il distacco difensivo è l’unico mezzo possibile che l’individuo ha per affrontare l’angoscia e che gli permette, gradualmente, di riorganizzare la propria routine. Un altro fattore fondamentale da tenere in considerazione è il tempo: un periodo definito permette all’individuo di adattarsi.
L’incapacità però di prevedere la fine di tale periodo risulta, invece, un fattore che incide fortemente sul vissuto emotivo della persona. Un vissuto carico di angoscia e preoccupazione prolungato per troppo tempo, può rendere difficile un riadattamento.
Riorganizzarsi, quindi, costituisce una grande opportunità per ognuno di noi ed è importante farlo subito. Aspettare passivamente la fine di questo periodo di quarantena rischia di posizionarci in una sorta di “limbo mentale” dal quale potrebbe diventare difficile riemergere. È importante sintonizzarci su cosa abbiamo perso davvero, sentirlo profondamente dentro di noi e usare la tristezza, la rabbia o la paura che a volte percepiamo, come uno stimolo per attivarci e avvalorare quello che abbiamo, anche a distanza, in questo momento.
Riferimenti
- American Psychiatric Association (2013). Diagnostic and statistical manual of mental disorders (DSM IV).USA: American Psychiatric Pub.
- Carli, L., Cavanna, D., e Zavattini, G.C. (2009). Psicologia delle relazioni di coppia. Bologna: Il Mulino.
- Cassidy,J. e Shaver, P.R. (2010). Manuale dell’attaccamento. Teoria, ricerca e applicazioni cliniche. Seconda edizione. Roma: Fioriti.